Ritornare dopo la “Delocalizzazione”
di Iside Fontana
“Prevenire è meglio che curare”: uno di quegli slogan che la pubblicità produce e poi si infila nella memoria di ciascuno di noi fino a diventare una mentalità acquisita.
Del resto, pare proprio ragionevole: preferiamo certamente evitare di ammalarci piuttosto che stare male e poi dover affrontare tutta la fatica del tentare di risalire al punto precedente la malattia.
Tuttavia, credo che anche in questo ambito siamo caduti in un paradigmatico fraintendimento. Infatti, il sistema di prevenzione messo in piedi è perfettamente sintonizzato sulle disarmonie di una umanità nel suo stato ego-centrato, ben modellato da una struttura economico-sociale di un sistema finanziario compulsivamente consumista.
Se pensiamo alla prevenzione, facilmente ci verrà in mente qualche campagna di screening dove siamo caldamente invitati a effettuare analisi di ogni tipo, per monitorare meticolosamente il nostro stato di salute. Mammografia, Pap test, colonscopia, ecc. con convocazione personalizzata. Prescrizioni a tappeto di statine o farmaci per tenere a bada la pressione sanguigna e scongiurare così un evento cardiovascolare. Naturalmente poi le analisi del sangue una volta all’anno perché non si sa mai… prevenire è sempre meglio…
Un’amica mi diceva di aver sottoscritto una polizza assicurativa per la copertura delle spese sanitarie e, con quel senso di aver fatto davvero un bell’affare, mi sottolineava come compreso nel prezzo, fosse previsto un check-up all’anno di una specialità a scelta.
Un check-up cardiologico o un weekend in una spa: la logica è la stessa. In fondo, lo slogan del prevenire è meglio che curare era associato ad un dentifricio.
La categoria è una sola, non importa a cosa la si applichi. Il prodotto è messo in vendita, tutto è ammesso pur di convincere il consumatore all’acquisto. Tanto non siamo nulla di più di un consumatore, una specie di sistema digerente che inghiotte qualunque cosa, l’importante è che essudi profitto per le corporations.
In questo meccanismo ben oliato, di sicuro ci saranno persone che hanno visto individuare una piccola massa sospetta, sono state indirizzate alla biopsia e poi al tavolo operatorio per l’asportazione del tumore incipiente.
Il punto infatti è che cosa abbiamo fatto di una potenzialità favorevole, trasformandola in uno sfruttamento irragionevole – o meglio, imbrigliato nell’unica ragione possibile, quella economico commerciale.
Noi esseri umani siamo fondati su un vuoto che l’ego interpreta come mancanza destabilizzante e spaventosa da colmare con appigli di certezza. Nell’ambito sanitario, la certezza assume le sembianze del check-up, organizzato secondo la moda della delocalizzazione (o dell’outsourcing per dirla all’inglese).
Sembra infatti che subiamo sempre di più la fascinazione del demandare ad altri il sapere come stiamo. Lo dice un’App che controlla il battito cardiaco, il numero di passi giornalieri, che definisce il numero di calorie ad ogni pasto, oppure lo dice un’analisi cui assegniamo il potere di rivelare la verità sul nostro stato di salute. La mancanza di asterischi o le diciture “nei parametri di norma” ci danno un senso di sollievo come di inoppugnabile giudizio. Siamo a posto, nulla cui pensare fino al prossimo “tagliando”.
Per il riconoscimento di ciò che è malato in noi, il messaggio è martellante: serve essere sotto un occhio esterno e meccanico, che usa il linguaggio binario dell’algoritmo, il linguaggio della semplificazione per cui o siamo sani o siamo malati.
Seduta sulla sedia nel mio studio, cerco una posizione comoda e stabile, lascio andare il peso del corpo sul sedile della sedia e respiro. Sento il passaggio dell’aria nelle narici, e inizio l’osservazione della mia mente vagabondante. Pian piano prendo distanza dalla forma della mente che esce dalle mani del vasaio neoliberista. Provo a guardare me e il mondo a partire da un altro punto di vista.
Man mano che lo stato di meditazione si approfondisce, comincia un senso di dilatazione in cui il mio piccolo io ha cenni di esperienza di essere molto di più della compressione egoica dello stato ordinario di coscienza.
Non mi basta assolutamente più essere ridotta ad un consumatore, la vita ha ben altri orizzonti che desidero esplorare.
Scendo nelle morbidezze dello spirito, dove la vita si impregna di un sapore più intenso. Qui vivere assume una nuova conformazione e a partire da uno stato più unificato cambia la prospettiva.
Che significato do alla (mia) vita? Che cosa vale la pena di prevenire? È sufficiente una TAC a colmare il senso di insicurezza che mi abita?
Per l’io in relazione, il vuoto è la sorgente a cui si attinge tramite l’abbandono reso nella fiducia. Allora non c’è più la mancanza come fonte di incertezza, ma il vuoto è riconosciuto come fonte della vita, sorgente di creatività, che richiede affidamento. Per sprigionare il suo senso di compiutezza. In questo, il check-up annuale viene riposizionato e ricollocato a lato, perché il centro è altrove.
Per un’umanità più unificata ed integra prevenire e curare sono la stessa cosa. L’io relazionale vive iniziaticamente anche la prevenzione, portando dentro di sé la parola che interpreta i segni della malattia e della cura, un linguaggio complesso ed articolato, che richiede attenzione, concentrazione, meditazione.
La conoscenza di sé parte dall’interno, cerca lo scavo nelle profondità del mistero dell’umano non misurabile. Chiama a raccolta ciò che ha disperso, convoca in sé ciò che ha “delocalizzato”, perché l’io si faccia agente consapevole del proprio sentire.
Così, possiamo iniziare a discernere ciò che ci nutre da ciò che ci avvelena, ciò che ci cura da ciò che ci fa ammalare, ciò che è vitale da ciò che è mortifero. Lo possiamo fare anche con l’uso degli strumenti tecnologici più avanzati, sapendoli riconoscere appunto come strumenti, senza idolatrie, perché la sovrabbondanza della vita reclama ben altre aperture di pienezza.
Articolo di Iside Fontana
Fonte: https://www.darsipace.it/2023/02/06/ritornare-dopo-la-delocalizzazione/
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