Prendere coscienza del Dolore
di Maurizio Padrin
Eliminando la sofferenza al suo primo insorgere, l’uomo moderno si nega la possibilità di prendere coscienza del dolore e della straordinaria bellezza del suo contrario: il non-dolore.
Perché in tutte le grandi tradizioni religiose il dolore è visto come una cosa naturale, come una parte della vita? C’è forse nel dolore un qualche significato che ci sfugge? Che abbiamo dimenticato? Se anche ci fosse, non vogliamo saperne. Siamo condizionati a pensare che il bene deve eliminare il male, che nel mondo deve regnare il positivo e che l’esistenza non è l’armonia degli opposti.
In questa visione non c’è posto per la morte, né tanto meno per il dolore. La morte la neghiamo non pensandoci, togliendola dalla nostra quotidianità, relegandola, anche fisicamente, la dove è meno visibile. Col dolore abbiamo fatto anche di meglio: lo abbiamo sconfitto. Abbiamo trovato rimedi per ogni male e abbiamo eliminato dall’esperienza umana anche il più naturale, il più antico dei dolori: quello del parto, sul quale da che mondo è mondo si è formato l’orgoglio della maternità e l’unicità di quel rapporto madre-figlio forse saldato proprio dalla sofferenza. Ma questa è la nostra civiltà.
Ci abituiamo sempre di più a risolvere con mezzi esterni i nostri problemi e con ciò perdiamo sempre di più i nostri poteri naturali. Ricorriamo alla memoria del computer e perdiamo la nostra. Ingurgitiamo sempre più medicine e con ciò riduciamo la capacità del corpo di produrre le sue.
Ma si può davvero controllare il dolore con la mente? Vivendo in India si sentono tante storie – o leggende – secondo cui ci si può arrivare. La logica sarebbe questa: tutte le nostre sensazioni sono legate alla nostra coscienza; quando noi diciamo di vedere o sentire, non sono esattamente i nostri occhi a vedere o i nostri orecchi a sentire, ma è la nostra coscienza a prendere atto del fatto che gli occhi vedono e gli orecchi sentono.
Per cui basterebbe staccare, con la mente, la coscienza dalle sensazioni per non sentire più il dolore. In verità è esattamente quello che facciamo quando ci addormentiamo: la coscienza si assenta e noi non sentiamo più alcun dolore. Ma come arrivarci da svegli? La tradizione yoga promette questo “potere” e allude a un altro ancora più interessante: la capacità di trasferire il dolore fuori da sé, eventualmente su un oggetto.
Una delle storie più popolari di questa capacità ha quasi mille anni. Il protagonista è “Milarepa”, un tibetano, storicamente esistito, ma diventato poi leggenda come uno dei grandi yogi. Milarepa è ancora oggi frequentemente raffigurato nei tanka con la mano aperta dietro all’orecchio destro, nell’atto di prestare ascolto alla sofferenza del mondo.
Ma chi è Milarepa? Nato in Tibet nell’XI secolo da una famiglia di ricchi commercianti di lana impoveriti dopo la morte del padre, Milarepa, per vendicare la madre che è stata espropriata di ogni suo avere dai parenti, studia magia nera e riesce a causare loro morte e distruzione. Pentitosi di questo, Milarepa diventa discepolo di un grande maestro del suo tempo, “Marpa il Traduttore”, e vive per anni da asceta nella foresta, mangiando solo ortiche cucinate in una pentola di terracotta. Col tempo, Milarepa diventa famoso e rispettatissimo dalla gente per la sua grande saggezza, che non gli viene dai testi sacri imparati a memoria, ma dall’esperienza.
Un monaco suo contemporaneo, uno di quelli libreschi e molto pieni di sé, s’ingelosisce di lui, della sua reputazione e decide di ucciderlo. Manda così una concubina con l’ordine di offrire all’asceta un bicchiere di yogurt avvelenato. Milarepa, che fra i tanti poteri acquisiti con la pratica dello yoga ha anche quello di leggere nel pensiero, appena vede arrivare la donna, capisce, ma siccome è già anziano e sa che prima o poi dovrà pur morire, prende lo yogurt e lo beve.
Quando, però, Milarepa è ormai agonizzante, il monaco suo nemico si pente, corre dal vecchio yogi e, per poter espiare la sua colpa, lo implora di passargli tutto il dolore che prova. “Se lo facessi non resisteresti neppure un minuto” risponde Milarepa, che sembra controllare perfettamente la sua sofferenza. Il monaco insiste e Milarepa, per fargli capire come gli sarebbe impossibile sopportare quel dolore, dice che trasferirà solo un po’ della sua sofferenza sulla porta della stanza. E subito dopo la porta comincia a scricchiolare, a contorcersi; il legno si spacca. Al monaco cattivo non resta che buttarsi ai piedi di Milarepa, chiedergli perdono e diventare in extremis suo discepolo, prima che il vecchio yogi “lasci il suo corpo”.
Nella società moderna, molti di noi hanno imparato che il dolore è qualcosa da combattere a tutti i costi, un demone da sconfiggere. Ma è proprio così? Il dolore è come una spia che si accende nel nostro corpo e ci manda un prezioso segnale, se lo sappiamo ascoltare ci porta direttamente sulla giusta strada, ovvero verso l’autoguarigione. Ricordiamoci che il connubio corpo-mente è un’unità intelligente in grado di produrre tutte le sostanze necessarie di cui il corpo ha bisogno per rigenerarsi.
Quando si è nella paura ci si spaventa al minimo cenno di dolore e si ricorre ai farmaci, per un banale mal di testa, un dolore muscolare, un po’ di mal di stomaco e tanto altro. Dobbiamo, invece, imparare ad ascoltare quel dolore e guardarlo con amore, poiché esso ci condurrà sulla via della guarigione.
Articolo di Maurizio Padrin
Tratto da: “Un altro giro di giostra” di Tiziano Terzani (questo articolo è stato rivisto e contiene delle note personali dell’autore, Maurizio Padrin)
Fonte: https://direzionebenessere.com/prendere-coscienza-del-dolore/
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