Oltre l’Umanesimo
Noi abbiamo la nostra vita, disseminata di prove, le più varie per ognuno, perché questa vita coincide con il nostro destino.
E il nostro destino dipende dalla nostra costituzione, dalla nostra personalità. Non potevamo avere una vita diversa da quella che abbiamo, e desiderare una vita diversa da quella che abbiamo è utopia: cioè immaginare se fossi nato ricco, se avessi studiato questo o quello, se avessi avuto la possibilità… ecc…ecc…
No, abbiamo quel che ci meritiamo, abbiamo quello che possiamo permetterci di avere. Ognuno è già nella posizione migliore in cui si può trovare, anche se non lo capiamo e guardiamo invidiosi la vita dell’Altro.
Un destino è un insieme di forze inconsce lanciate che devono realizzarsi: ognuno semina nel proprio campo e raccoglie i propri frutti. Raccogliamo quello che abbiamo seminato, non vi è altro.
E se qualcuno semina nella nostra vita della sofferenza è solo perché noi offriamo una feritoia, un punto sguarnito che da accesso a questi attacchi, come il microbo che flagella un corpo malato e debole.
Una vita non si costruisce per contingenze fortuite, come molti “assennati” credono. Codesti realisti, a cui piace vantare il caso come elemento determinante degli eventi propri e altrui, giudicano senza sapere, guardano senza vedere, e/o si rassegnano tristemente al fato, o cercano di aggrapparsi almeno alla solidarietà umana per dare un senso alla nostra finitudine umana; ed è così che tali intellettuali vengono applauditi e riconosciuti come eccellenze. In fondo, la massa applaude chi parla la propria lingua, perché altro non comprendono.
Io li capisco, lo sapete? Li capisco davvero… Ma pur trovando in loro uno struggente moto di umanità, una certa passione per la vita, una lacerazione angosciosa che cerca di saziarsi almeno nella fraternità umana, alla fine ciò che emerge non è una vera fede, una speranza positiva, ma una melanconia di fondo che resta. Sì, in loro resta la melanconia. Come dire be’…almeno quello! Un avanzo di positività in un mare di sofferenza.
Anche l’amore, per i più assennati tra gli assennati, è per essi tutto sommato l’unica cosa che conta e che vale la pena vivere. Una vita spesa almeno per qualcosa che ha valore e da un senso di compiutezza all’esistenza. Ma poi… be’, poi vi è la morte, e tutto si porta via. Questa è la fine della filosofia, il confine dell’umano, la soglia del limite.
Li capisco, li capisco davvero… La speranza di aver fatto almeno qualcosa di buono, di aver dato un senso all’assurdità della vita, così infatti descrivono talune eccellenze la vita: un assurdo. Mi pare quasi romanticismo che ha un fondo di disperazione, ma loro preferiscono chiamarla realtà.
Il dolore non ha senso, l’universo non ha senso: di base un’angoscia e una così grande solitudine li trapassa, ma in fondo penso che a loro piaccia anche struggersi un po’, vi è una certa passione per questa melanconia.
Ma se la vita esprime queste forze inconsce lanciate, allora come pensiamo che il dolore non abbia senso? Come pensare alla casualità negli eventi anche tragici dell’esistenza?
Davvero ho dovuto aprire gli occhi! E vedo che guardando alla mia vita, tutto succede in base alla mia costituzione e niente di diverso succederà se non seguendo il filo delle mie scelte che dipendono solo da me, e da come sono fatto.E se il mio destino si apre certo e risoluto fin dalla mia infanzia, devo presumere, non senza ragione, che lanciai ancor prima di nascere in questo mondo tali forze, in un tempo di cui non ho più memoria. Ma che tali forze posso averle costruite solo io, e nessun altro per mio conto.
Una strada l’ho scritta io stesso, per me stesso e adesso si sta svolgendo deterministicamente, meccanicamente. E se tale strada non mi piace, allora devo fare i conti con me e non mi rimane altro che mettere mano alla mia personalità, modificando la traiettoria di questi impulsi che costantemente immetto nella mia vita.
Non è facile, perché certe cose sono sconosciute a noi stessi: noi stessi siamo un mistero a noi stessi. Ma cambiare si può solo conoscendosi, solo venendo a capo delle nostre intenzioni, solo con profonda onestà interiore. Poi ci vuole coraggio, sì anche quello, ma penso ne valga la pena.
E nutro la speranza che tutto non sia vano, che alla fine della mia giornata terrena vi sarà ancora un domani; che, come le opere del passato mi seguono oggi, le opere di oggi mi seguiranno domani: al di là del limite della nostra finitudine terrena.
Non per ricevere un premio, credo e spero questo, ma per continuare il lavoro che ho cominciato. La mia fede è che tutto abbia un senso anche se a volte è difficile capirlo: e a noi non è dato sapere tutto.
La fede mi accompagna nella certezza che io ho un ruolo nel mio destino, che ho una funzione, e che spetta a me meritare le gioie e i dolori che trovo sul mio sentiero.
Ma la fede mi accompagna anche là dove non posso capire e vedere, e in questo caso paradossalmente mi arrendo e mi abbandono alla Volontà di Dio, a quell’Intelligenza che arriva dove io non arrivo, che mi guida al di là della mia capacità di comprendere.
Il mio dolore è già così trasformato, la mia angoscia attenuata, la mia personalità spirituale sana i suoi punti deboli e le forze contrarie che possono trovarsi nel mio destino trovano il mio essere pronto ad attutire, e ad assorbire tale urto.
Già solo questo vale la fatica di evolvere. Più ci si evolve e più il dolore si riassorbe nella pace e nella gioia: anche nel pianto e nelle ferite, in fondo, vi è una serenità che non si scalfisce. Si può piangere di dolore e gioire allo stesso tempo.
Anche queste sono esperienze esistenziali, che però trascendono la finitudine umana, andando nell’ Oltre-uomo, ma non Nietzscheano, ma bensì Spirituale.
Trovo così un senso comune, universale che si innesta nelle nostre vite particolari e che ognuno esprime nella propria singola vita, con la propria vocazione, se avrà mai voglia di cercarla. Tale senso è appunto evolvere.
Fonte: https://lanuovaera.blog/2023/09/19/oltre-lumanesimo/
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