L’Essenza dello Spirito Persiano
di Lelio Antonio Deganutti
Manṣūr al-Hallāj, poeta, asceta e pensatore fu condannato a morte per aver nominato Dio. In lui l’essenza dello spirito persiano.
Nella lunga e tortuosa storia del pensiero mistico islamico, pochi nomi brillano con la stessa luce di Manṣūr al-Hallāj. Nato nella Persia del IX secolo, Hallāj non fu solo un poeta, un asceta o un pensatore sufi: fu una fiamma viva, un’anima divorata dall’amore per il Divino. La sua vita e la sua morte racchiudono in sé l’archetipo del martire persiano, pronto a perdere tutto pur di testimoniare una verità interiore più grande della legge, del dogma o della paura.
Fu impiccato e squartato pubblicamente nel 922 a Baghdad, condannato per eresia. Il suo crimine? Avere pronunciato, in uno stato di estasi mistica, la frase: “Anā al-Ḥaqq” (“Io sono la Verità”), identificandosi così con Dio stesso. Ma nel cuore del sufismo, ciò che scandalizza il teologo ortodosso è il linguaggio dell’amore: Hallāj non proclamava un’uguaglianza ontologica, ma una dissoluzione totale dell’io nell’oceano dell’Assoluto.
Eppure, fu durante il supplizio che la sua grandezza toccò il vertice. Rivolgendosi al suo aguzzino, tra il sangue e le catene, avrebbe sussurrato: “Non mi illudi… anche tu sei Dio.”
Non c’era disprezzo, né arroganza: solo compassione per chi non aveva ancora riconosciuto il proprio riflesso nell’Infinito.
Il Martire Persiano: un Fuoco che Non si Spegne
Questo gesto non è isolato. Al contrario, l’intera storia persiana è costellata di martiri, uomini e donne che hanno sfidato imperi, oppressioni e oscurantismi con la forza della loro integrità spirituale. Dall’Imam Ḥusayn a Simorgh, dalle rivolte contro gli Omayyadi alle proteste del XX e XXI secolo, il martirio in Iran non è mai stato fine a sé stesso: è stato linguaggio, preghiera, grido, identità.
Il popolo persiano, nelle sue radici zoroastriane, islamiche e poetiche, ha interiorizzato il concetto del sacrificio come forma suprema di autenticità. Il martire non cerca la morte, ma è disposto ad abbracciarla se essa è la via per non mentire a sé stesso. Questo è il filo rosso che unisce Hallāj al giovane ucciso sotto un regime, il mistico al poeta, il sufi al rivoluzionario.
La Persia Come Terra di Rivelazione
Nel mondo persiano, la poesia ha sempre parlato come una rivelazione mistica. Poeti come Rūmī, Ḥāfeẓ, Khayyām e Sohrab Sepehri non sono solo letterati, ma profeti, interpreti dell’invisibile. In questo orizzonte, Al-Hallāj si erge come simbolo di ciò che accade quando la parola non è più poesia, ma fuoco: brucia l’ingiustizia, scardina il dogma, dissolve l’ego.
Il suo martirio non è la fine, ma l’inizio. Ogni generazione persiana che si è trovata a scegliere tra verità e sopravvivenza ha risentito, consapevolmente o meno, l’eco di quella voce trafitta: “Anā al-Ḥaqq… anche tu sei Dio.”
Una Lezione per Tutti
La lezione di Al-Hallāj e del martirio persiano non riguarda solo l’Iran o l’Islam. È una chiamata universale a vivere con verità, anche quando il prezzo è alto. È una sfida rivolta ad ogni cuore umano: hai il coraggio di essere ciò che sei, anche davanti al fuoco?
Hallāj ha risposto “sì”, e ha sorriso al suo carnefice, vedendo in lui lo stesso Dio che lui aveva riconosciuto in sé stesso. E finché quel gesto sarà ricordato, la Persia non potrà mai essere piegata.
Articolo di Lelio Antonio Deganutti
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