La Mistificazione del Dover Vivere
di Gimmi Santucci
In questo tempo in cui non sconvolge più niente, dove la laicità positivista razionalizza e digerisce ogni pathos e ogni mistero, resta la cogenza estrema dell’esistere biologicamente. Per estensione, la prospettiva di non esserci più è ritenuta inaccettabile e spaventosa.

L’horror vacui non contempla né metafisica né alcuna compiutezza esistenziale, ma si concentra sulla conclusione dell’attività cellulare e metabolica. Per mantenere una condizione fisiologica fine a sé stessa, si ricorre a misure che negano la quintessenza del vivere nel suo senso completo. Comprimere l’esistere per garantire l’esserci è prassi frequente, così come insistere sull’esserci senza possibilità di esistere.
Segregazioni sanitarie e accanimenti terapeutici, terapie tossiche, interventi invasivi, privazioni ritenute necessarie, concorrono a un sistema che privilegia la vita biologica sulla vita vissuta, esprimendo plasticamente il principio di condizione necessaria ma non sufficiente, per declinare, infine, una perfetta e marchiana eterogenesi dei fini, per cui non si vive per non morire.
Davanti all’ipotesi della morte, la nostra cultura spiega un armamentario di suggestioni e scongiuri. Una circostanza naturale e inevitabile per chiunque, è travisata in una sciagura sorprendente e ingiusta. Per essere una società che invoca il ritorno alla natura, che dissacra e assolve ignorando qualsiasi assiologia e sinderesi, l’irricevibilità della morte, implicita e inseparabile dalla vita stessa, risulta quanto mai stravagante.
La vita, più che un diritto diventa spesso un dovere, con un portato moralistico che combina luoghi comuni, retorica, presunzioni, velleità giudicatorie, obblighi disumani, inadeguatezze, colpevolizzazioni di sorta. Davanti alle difficoltà, il supporto consueto è incitare secondo la dialettica bellica o agonistica. Il repertorio abbonda di “coraggio”, “combatti”, “sconfiggi”, “tieni duro”. Si celebra l’agonizzante che non spira come un “innamorato della vita”, come uno che “ha resistito fino all’ultimo”. Si glorifica chi “ha affrontato tutto pur di vivere”. Su queste farneticazioni pronte all’uso, quella suprema è il perentorio invito a essere e pensare positivo. Se nella fortuna si conviene dissimulare per non compiacersi, nelle difficoltà ci si dovrebbe proporre come uno sciroccato affetto da riso spastico, un dabbenuomo incosciente senza cognizione del suo stesso destino.
Austeri nel bene e oche giulive nel male, sempre pronti a ringhiare come un lottatore, alle scansate da schermidore, alle astuzie da scacchista, perché il modello esistenziale attiene alla competizione e alla sfida, in un combinato dove, al dunque, contando i rapporti di forza e il valore di scambio, vince chi si adegua approfittando e beffando. Se si cade “ci si rialza” per “andare sempre avanti”, anche se non si sa dove e come.
La spasmodica urgenza di esserci, la presunzione del diritto alla vita e dell’inviolabilità del diritto e della vita, non sono sanciti da nessun istituto costituito né da alcun dispositivo giuridico effettivo che garantiscano e proteggano un’esistenza degna. Nelle difficoltà, l’assistenza necessaria è spesso tardiva, insufficiente, difficile da ottenere o del tutto mancante. I reati contro la persona non sempre ricevono una pena certa ed esemplare, si propone l’eutanasia come soluzione socio-sanitaria decisa a prescindere dall’interessato, si osservano stragi o fatalità preterintenzionali come si fosse al cinema o in un gioco di simulazione. Ma qualora ci si rassegnasse alla propria fine, partirebbero le gran casse a reboare di tenacia e di ottimismo, perché non esserci è una sconfitta, accettarlo è una vigliaccata.
Anche sul piano religioso le argomentazioni appaiono deboli. La vita è sacra in quanto dono divino. Oltre la fede e la preghiera, autoctone e immanenti nel soggetto stesso, non vengono offerti sostegni concreti che prescindano e superino le capacità individuali. Ma un dono è tale se è godibile, altrimenti è inutile. Se addirittura si è costretti a fruirne senza requisiti, non è più un dono ma una condanna.
L’impalcatura liberale presume di consentire ogni scelta possibile, che ognuno sia “artefice del proprio destino” e quindi responsabile delle eventuali sciagure. Tutto è trasferito sull’individuo, libero di fare come vuole, ma lasciato solo qualora necessiti di aiuto.
La dinamica civica è ormai regolata in ogni minimo aspetto quotidiano. È stabilito come muoversi, come mantenere la casa, quando riscaldarsi, quando scaricare il gabinetto, come smaltire i rifiuti. Ci si cura solo come da protocollo, sono indicate parole e opinioni sconvenienti. Ogni ambito della quotidianità implica obblighi e gabelle che traspongono un avido feudatario e lo sceriffo di Nottingham in morigerati benefattori.
L’ipertrofia nomotetica della giuridificazione civile sbrindella qualsiasi vessillo di “stato minimo”, che riverbera proprio l’inconsistenza progressiva delle garanzie sociali. A fronte di una miriade di doveri minimi per regolare libertà pretestuose, si è compresso qualsiasi diritto fondamentale.
Il funzionalismo collettivo esclude l’esistenza individuale. Il campione d’uomo sottinteso è manodopera conformizzata, che surroga il vuoto digerendo misture alcoliche dozzinali in qualche città lontana. Un meccanismo organico funzionale alla produzione e al consumo.
Per questo simulacro di individuo, per uno stereotipo ridotto a vivere senza intensità, il non esserci è più che mai spaventoso. Tutto si sostanzia nel vestirsi, nell’ebrezza di tecnologia comprata a rate, in un viaggio a basso costo, in una gozzoviglia qualunque, in una sequela di amplessi insignificanti.

L’orrore del “dopo” deriva dalla disconnessione brutale da qualsiasi ipotesi trascendente, da ogni immaginario metafisico. L’unica vita concepibile e considerabile è questa corporea. Senza la prospettiva di dimensioni esistenziali molteplici secondo una cosmogonia multiversale, si crede che tutto finisca quando smettiamo di trasformare ossigeno in anidride carbonica. L’evenienza del “dopo” si è dissolta ignorando la nozione di “oltre”, rarefacendo l’indagine e la consapevolezza sul complesso anima-spirito-mente-coscienza.
L’assoluto della vita biologica impone di sopravvalutare il corpo come unico strumento per viverla. Erroneamente si ritiene che vita e corpo pertengano a un diritto assoluto e inviolabile. Invece, l’intervento ripetuto di limiti e condizionalità, suggerisce che il diritto sia piuttosto una concessione. Se questo è vero, è necessario constatare che l’appaltante non può essere dominus.
Quindi il corpus che non habeas, richiede impegno per tutelarlo così come la vita va guadagnata e contesa in una partita che, nella cultura dominante, non è legittimo non giocare. Niente è sacro senza trascendenza, niente è assoluto se c’è dipendenza. La nostra vita è profana, relativa e contingente, dunque non serve esecrarne la fine, ammesso che il rifiuto della morte consegue l’aver trascurato il senso dell’uomo e della vita stessa.
Articolo di Gimmi Santucci
Fonte: https://frontiere.me/la-mistificazione-del-dover-vivere/





































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