L’Ascolto, la Parola e il Silenzio
di Mariabianca Carelli
La comunicazione tra gli uomini può apparire spesso difficile, e talvolta dolorosa, a causa di incomprensioni e malintesi.
Frequentemente non abbiamo idee chiare né voglia di ascoltare realmente, e discutere diventa solo un confrontarsi per “mostrare i muscoli” esibendo capacità logiche e dialettiche.
Plutarco ed altri saggi, ci hanno mostrato la via del vero Ascolto, che fa il vuoto di opinioni e giudizi pregressi. In qualsiasi confronto, dovremmo poter vincere la tendenza a rispondere immediatamente sull’onda dell’emotività, poiché in quel caso, la risposta che consideriamo spesso, benevolmente, “spontanea” o “istintiva”, nasce, in realtà, da abitudini mentali precedenti, da preconcetti, da pensieri ripetitivi che “già” sono nella nostra mente. In tal modo non ci dimostriamo pronti ad un eventuale ampliamento di coscienza, né ad un reale ascolto che possa farci cambiare.
All’ascolto attento è necessario si accompagni il giusto uso della Parola. Afferma un detto ermetico: “Le cose sono ciò che la Parola ne fa col nominarle”. Oggi l’umanità è molto più mentale del passato e ciascuno immette nei canali dell’esistenza un flusso massiccio di parole. Le parole scritte sono suscettibili di modifiche, all’atto della loro emissione; sono più facilmente controllabili perché sottoposte a preventiva riflessione. Quelle parlate seguono spesso canali emotivi non ancora vigilati e purificati, non consentono di “tornare indietro”, di “cancellare”, non sono rivedibili né modificabili.
Da ciò nasce il grande impegno di ogni Pensatore, in particolare del ricercatore spirituale. Egli comprende che le parole non sono “neutre”, sono energia vivente, e costituiscono uno dei poteri più grandi che l’uomo possiede; con esse possiamo creare o distruggere, abbassare o elevare, potenziare o indebolire. La Parola illuminata, usata consapevolmente per il Bene, può guarire, illuminare, proteggere, salvare. Ci viene pertanto consigliato di ridurne il numero e di vigilare attentamente su di esse, affinché rispondano a caratteristiche di: verità, amorevolezza, utilità.
In Oriente, si considera ogni parola un mantra (da man e tra: rapporto) che indica la modalità del suono, la nota con cui entriamo in rapporto con gli altri. Ogni parola è un ‘nucleo energetico’ che rappresenta un’idea, o un insieme di idee; essa, inviata a una persona, o a un gruppo, produce effetti proporzionali alla potenza dell’emittente e consequenziali alla maggiore o minore purezza della sua intenzione. Ciò corrisponde ad una precisa verità sostenuta dalla Saggezza antica: “L’energia segue il pensiero e la Parola è ciò che lo concretizza”.
Di ogni parola – ammonisce il Vangelo – l’uomo dovrà rendere conto; non solo di quelle ispirate a sentimenti positivi o negativi, ma anche di quelle vane ed inutili. Spesso le nostre parole sono “profane”, cioè sono pronunciate senza entrare in contatto con la coscienza più profonda, con il Sé. La mente ripete ed esprime contenuti captati dalle forme-pensiero collettive: luoghi comuni, opinioni diffuse, pettegolezzi, banalità che non sono il frutto del nostro pensiero più genuino, ma riflessi condizionati del “campo morfogenico” nel quale siamo immersi costantemente, e quasi sempre inconsapevolmente. La parola è allora vuoto suono senz’anima.
Il modo in cui usiamo l’energia compressa nelle parole, ri-vela il rapporto che abbiamo con noi stessi e con gli altri e la modalità con la quale operiamo nel mondo. Così, se esprimiamo ripetutamente concetti costruttivi e luminosi, le azioni che ne deriveranno possederanno senz’altro la stessa vibrazione; se ci rivolgiamo ad altri con parole ispirate all’amorevolezza, quella stessa qualità si riverbererà nella nostra vita.
Riguardo a noi stessi, e alla nostra auto-educazione, evitiamo pertanto di dire: “Sono avido, cercherò di esserlo meno” o “Non voglio più essere irascibile”; evitando i “non”, i “meno” e le affermazioni al negativo, che influenzano sfavorevolmente il nostro inconscio. Potremmo invece dire: “Mi muovo ogni giorno verso il l’Altruismo” o “Divento sempre più calmo”. L’accuratezza nell’uso delle parole – che eviti tuttavia di scadere nell’accademismo e nella retorica – è segno di Ordine e di Bellezza, che sono qualità richieste sul Sentiero.
Utile e ispirante è anche la ricerca delle etimologie, che non dovrà certamente essere finalizzata a “sfoggi di cultura”, ma potrà essere il mezzo per entrare in contatto con l’essenza delle parole, spesso banalizzate e deprivate di forza dall’uso quotidiano. Si può, attraverso questa indagine, riscoprirne l’energia primigenia chiarificatrice di significati. Così, ad esempio, il termine “entusiasmo”, tanto comunemente usato, rimanderà al senso di avere “un dio” (theos) dentro (én); e ogni volta che lo useremo, dopo averne colto la forza originaria, vi sarà dentro di noi una diversa considerazione dello “spessore” del termine. Afferma un’ispirata invocazione: “Possa io compiere la mia parte nel Lavoro Unico con l’oblio di me stesso, l’innocuità e la giusta Parola!”
E’ necessario considerare anche il profondo valore del Silenzio. La mentalità comune ritiene che silenzio sia semplicemente la mancanza di parola; la nostra società, presa dal vortice delle parole, teme il silenzio, che appare invece spesso utile e necessario, e, in alcune circostanze, saggio e sacro. La parola è estremamente importante nei gruppi umani ma ha anche dei limiti: non arriverà mai ad esprimere perfettamente ciò che vorremmo, perché ogni espressione verbale, per quanto possa apparire significativa, è sempre, almeno in parte, una cristallizzazione del nostro retaggio culturale. Le esperienze più alte sono sempre indicate, da mistici e illuminati, come “ineffabili”, proprio perché stra-ordinarie e dirompenti.
Ecco perché il vero silenzio interiore può contribuire a farci percepire meglio il senso e la funzione di ogni parola, ad avvertirne la pertinenza o l’inutilità e, spesso, a collegarci con maggiore intensità e consapevolezza con ciò che ci circonda: “La persona solitaria, ben lontana da chiudersi in se stessa, diventa una con tutti. Partecipa della solitudine, della povertà, dell’indigenza di ogni essere umano”. (Thomas Merton)
E’ nel silenzio che riusciamo a trascendere ogni forma di linguaggio stereotipato. In esso entriamo nella dimensione del meta-linguaggio, il quale ci aiuta a padroneggiare meglio la situazione per non scadere nei luoghi comuni e lasciarci incoscientemente condizionare dalla mentalità corrente. Poiché: “E’ solo nella solitudine e nel silenzio che la nostra vita è realmente presente, che noi rispondiamo veramente al battito del cuore dell’universo e siamo liberi di contemplare il miracolo dell’esistenza. Forse non il mondo della strada ma il mondo del qui ed ora”. (John Lane, Lo spirito del silenzio)
Il vero silenzio interiore consiste nel non dare per scontati concetti, immagini, e persino il valore attribuito a termini acquisiti sin dall’infanzia; esso pertanto è uno dei principali motori del progresso civile ed etico e di ogni operazione che richieda cambiamento di regole e schemi sentiti come ormai inaridenti e cristallizzanti. Affermava il poeta e scrittore francese Alfred de Vigny: “Solo il silenzio è grande; il resto è debolezza”.
Nel linguaggio mistico del passato, “andare nel deserto” significava rientrare in se stessi per fronteggiare meglio le situazioni esterne; i monasteri di clausura usano ancora l’espressione “fare deserto”, a proposito della necessità del silenzio interiore in cui l’anima può vibrare all’unisono con il Cosmo.
Per far nascere realmente in noi stessi questo “fiore del deserto”, sono richieste vigilanza, saggezza e determinazione, perché la nostra mente è avida di contenuti e il nostro piccolo sé teme il vuoto, nel quale potrebbe perdere la sua illusoria identità: “L’Intelligenza cosmica ha messo i suoi tesori là dove il rumore non può avere accesso. Per raggiungere quelle regioni, bisogna staccarsi dal livello delle passioni ordinarie e dalle loro grandi oscillazioni, e aumentare l’intensità delle vibrazioni della propria anima. È introducendo il silenzio nella sua anima che il discepolo si innalzerà fino a quelle regioni in cui l’Intelligenza cosmica ha posto la felicità“. (Omraam Mikhaël Aïvanhov, Pensieri quotidiani)
E l’iniziato Dante conferma che le esperienze più alte non si possono “ridire”:
“Nel ciel che più della sua luce prende
fui io e vidi cose che ridire
né sa né può chi di lassù discende” (Paradiso, canto I)
Tratto da: “Sul Sentiero I: Dalla divina inquietudine alla Gioia” di Mariabianca Carelli
Si ringrazia l’autrice per averci inviato questi meravigliosi scritti. (Ne seguiranno altri…)
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