La Sindrome della “Crocerossina”
Dottor Riccardo Coco
La tendenza a creare incastri relazionali in cui i ruoli sono rigidi, è data da spinte motivazionali inconsce apprese nel contesto delle relazioni familiari.
L’utilizzo di questa espressione, “la Sindrome della Crocerossina” (per gli uomini, si parla di “sindrome dell’infermiere”), non si trova in nessun testo di psichiatria e non esiste nessuna categoria diagnostica con questo nome. Tuttavia, è un termine entrato così tanto nell’uso comune e nell’immaginario collettivo, che lo utilizzerò per descrivere quel tipo di persone (per motivi culturali vi sono più “crocerossine” che “infermieri”) che scelgono partner e mantengono relazioni affettive, in cui rivestono rigidamente il ruolo di “coloro che si prendono cura degli altri”.
La loro missione nella vita relazionale è “salvare gli altri”, “risanarli”, “rivitalizzarli”, cambiarli per farli essere “felici” (secondo la loro idea di ciò che significa essere felici). Per tali motivi, si “incastrano” con amici e partner che nella relazione rivestono e devono rivestire il ruolo di “coloro che devono essere aiutati”. La “crocerossina”, in sostanza, può esistere solo se c’è un “malato”!
Queste due persone si scelgono inconsciamente e provano da subito una forte attrazione reciproca. Il legame che creano è un incastro perfetto, come “quella” chiave per “quella” serratura. Un legame tanto solido quanto spesso “non evolutivo” per entrambi, poiché in queste relazioni i ruoli devono essere mantenuti rigidamente e pertanto non c’è possibilità di cambiamento.
Questo perché entrambi fanno molta fatica a stare in relazioni intime in un altro modo che non sia quello. Quali conseguenze? Beh, per esempio le seguenti: quando la “crocerossina” sarà in difficoltà chi ci sarà per lei? Lei è una “specialista” nell’accudire gli altri, ma a lei chi ci pensa? Ed è capace di chiedere aiuto lei? Di appoggiarsi ad un altro? E il “malato”? Anch’egli non è che vada meglio, perché può esistere nel rapporto solo come “malato”, se prova effettivamente a cambiare ed uscire da tale ruolo, magari essendo più indipendente ed autonomo, non chiedendo sempre aiuto alla crocerossina, la relazione può andare in crisi, poiché si è strutturata su questo “patto non scritto”.
È questo il dramma delle coppie che creano relazioni in cui i ruoli sono molto rigidi. Insomma c’è proprio un “gioco di coppia”, sottile ed inconscio, che blocca le due persone nel tempo e nelle possibilità di esprimere i diversi aspetti della propria personalità. Queste coppie che potremmo definire del tipo “l’infermiere ed il malato”, sono una variante, una sotto-categoria, delle cosiddette “coppie complementari”. Per via del “gioco di coppia” cui accennavo più sopra, si crea un paradosso in queste coppie, perché possono rendersi conto di essere infelici, ma se provano a cambiare, trovano la resistenza inconscia dell’altro o si attivano in loro paure relative alla rottura della coppia.
Si crea così un conflitto interno tra il bisogno inconscio di restare così e il desiderio di cambiamento. Desiderio di cambiamento che attiva paure molto forti. E solitamente il bisogno vince sul desiderio 4-0, poiché il cambiamento spaventa molto essendo legato all’incertezza e all’ignoto di un nuovo modo di stare insieme, che è tutto da scoprire e costruire con fatica, mettendosi in gioco e risolvendo i propri problemi relazionali che portano a creare legami con ruoli rigidi.
Quali sono, dunque, le motivazioni inconsce che portano queste persone a diventare nelle relazioni “crocerossine ed infermieri”, e a cercare quindi partner complementari che possano rivestire il ruolo di “malati” o “bisognosi d’amore”? Dove si impara a porsi nelle relazioni come “i salvatori”?
Le esperienze e relazioni infantili strutturano ed organizzano la personalità adulta. Questi adulti hanno imparato nella loro infanzia, interagendo con le loro figure di attaccamento, un certo modo di stare in relazione, che poi portano avanti anche da adulti, perché è il modo che conoscono… e ciò che si conosce rassicura, anche se può rendere, alla fine, infelici: il bisogno di continuità nell’esperienza di sé, il proprio senso di identità è così primario e necessario, da guidare ed orientare nelle scelte relazionali come “una bussola emotiva”. In fondo, non è forse vero che l’ignoto spaventa e disorienta? Come camminare nel buio, direi…
Ebbene, nelle storie di queste persone ci sono spesso “relazioni di accudimento invertite” in cui furono loro a doversi occupare dei bisogni emotivi (a volte anche fisici) dei loro caregivers (cioè chi si occupa del bambino, di solito i genitori) e non necessariamente perché questi glielo avessero chiesto: magari li vedevano infelici e depressi, o erano spesso malati fisicamente, ed allora ecco che per vederli felici si prodigavano per “rivitalizzarli”, facendo per esempio “i loro confidenti”, i loro “infermieri” o anche “i clown della famiglia”: sono quei bambini che in casa cantano, urlano, giocano, saltano, o anche rompono spesso oggetti, tutto pur di “svegliare dal torpore i genitori” ed attirare l’attenzione su di sé, anche per deviare, sempre su di sé, il conflitto della coppia genitoriale.
Conflitto che può anche essere non esplicitato dai genitori, ma che si “percepisce” attraverso la tensione che si “sente” nell’aria. Far arrabbiare i genitori, allora, a costo di prender tante punizioni, sembra mille volte meglio ad un bambino del sentire il vuoto angosciante che c’è quando ogni adulto sta per conto suo e non ci si incontra. Lo scontro allora è meglio del non incontro… è un abbozzo di relazione, almeno!
Dunque, sia il senso di vuoto che la sofferenza dei genitori o i loro conflitti di coppia “impliciti”, spingono questi bambini “a dare, e dare… e poi ancora dare”, speranzosi “di salvare” per poi avere dell’affetto in cambio, una volta che saranno riusciti nella loro missione (impossibile) di “risanare” i genitori.
È come se il bambino si dicesse “una volta resi felici con il mio amore, finalmente potranno darmi quell’amore e quelle attenzioni di cui ho bisogno”, ma le cose non avranno quasi mai questo esito, anzi finirà spesso che tali bambini si svuoteranno della loro energia vitale e si deprimeranno.
E poi diventati adulti continueranno in questa modalità appresa di “svuotarsi” nelle relazioni e rimarranno spesso profondamente delusi dagli altri, che non riusciranno a ricambiare il loro “dare” come loro vorrebbero: il fatto è che ciò che inconsciamente vanno cercando negli altri, è l’amore infantile di “una madre”, e solo fare i conti con questo “lutto” per l’amore non avuto e curare questa ferita, potrà terapeuticamente cambiarli.
Articolo del Dottor Riccardo Coco – Psicologo e Psicoterapeuta, Sito web: http://riccardococo.altervista.org, e–mail: cocoricc@libero.it
Fonte: http://riccardococo.altervista.org
Bellissimo e molto vero.Il rapporto coppie complementari, con i rispettivi ruoli rigidi di qualunque tipo, rappresenta una sfida ardua ma possibile a far emergere e poi consapevolizzare e risolvere conflitti interiori profondi e trovare l’Unione vera profonda. Si vede da queste dinamiche come in realtà siamo Una sola mente che interagisce con sé stessa attraverso le due persone. Percorso difficilissimo ma affascinante. Grazie